Descrizione breve
formato cm 17x24, volume cartonato, pp. 160, illustrato in b/n e a colori
Le notizie in nostro possesso sulla versione latina del De virtute morali di Plutarco realizzata da Andrea Matteo Acquaviva si ricavano quasi esclusivamente da due testi: la Praefatio dello stesso Acquaviva, tramandata in due redazioni differenti, di cui la più antica segnalata da Francesco Tateo, e la lettera all’indirizzo di Giannantonio Donato Acquaviva che Pietro Summonte pubblicò in apertura della princeps napoletana nel 1526. Come già rilevato da Tateo i due ‘racconti’ della vicenda del testo non coincidono perfettamente e questo non aiuta certo nella definizione dei tempi di composizione dell’opuscolo e del successivo commento.
La prima versione della lettera dedicatoria della traduzione è indirizzata esclusivamente a Troiano Caracciolo, principe di Melfi, morto il 16 maggio 1520 al termine di un’esistenza passata sui campi di battaglia. Ai suoi impegni di condottiero allude l’Acquaviva tra le righe della sua prefatoria, sicché dovremmo dedurne che la dedica non fu scritta negli ultimi anni di vita del principe, ritiratosi nel suo palazzo di Leonessa, lontano dagli impegni politici e militari dopo l’affermarsi definitivo degli Spagnoli nel Regno.
Sicuramente prima del 1520, dunque, e forse anche prima del 1509 – data di pubblicazione della princeps dei Moralia omnia plutarchei per i tipi di Aldo Manuzio a cura di Demetrio Ducas – Andrea Matteo Acquaviva si procurò una copia del testo greco di Plutarco e, mettendo a frutto i precetti del suo maestro Giovanni Pardo, come dichiara sempre nella prefazione, e dei suoi studi di filosofia, tradusse in latino l’opuscolo De virtute morali, con l’intento di avvicinarsi ad un testo, che si presentava di grande interesse per i suoi studi umanistici.
(dalla Nota al Testo di Claudia Corfiati)
Esponente di un antichissimo lignaggio appartenente al nucleo storico della nobiltà del Mezzogiorno italiano, Andrea Matteo III Acquaviva d’Aragona, duca d’Atri, principe di Teramo, conte di Conversano, fu un valoroso condottiero, un principe illuminato a capo di un grande e composito ‘stato’ feudale, che si estendeva dalla Terra di Bari a quella di Teramo, con un’importante propaggine in Campania, lo ‘stato’ di Caserta, e aveva come poli principali il ducato di Atri e la contea di Conversano.
A causa dell’antica indocilità del baronaggio tradizionale, sempre teso ad attuare una sorta d’indipendenza dal potere aragonese prima e da quello spagnolo dopo, anche Andrea Matteo fu alquanto ribelle verso il potere regio, cadendo nell’insubordinazione e nella congiura. Il suo ribellismo ebbe modo di manifestarsi sia nelle congiure baronali contro il re Ferrante I (Ferdinando I) d’Aragona sia nella fase convulsa dell’affermazione del potere ispanico nel Regno di Napoli, ma sotto Ferrante riuscì ad evitare la prigionia molto probabilmente per una serie di ragioni, ben note anche ai contemporanei: il conferimento il 16 settembre 1477 da parte del sovrano aragonese a Giulio Antonio Acquaviva (padre di Andrea Matteo), come segno di riconoscimento per i servigi militari resi alla corona, di un diploma di benemerenza grazie al quale entrò a far parte della famiglia reale, acquisendo il diritto, con i suoi discendenti maschi, di associare al proprio cognome l’appellativo “d’Aragona” e di inquartare nel suo stemma quello della casa reale; e i legami parentali vigenti con la casa regnante aragonese, in quanto Andrea Matteo era figlio di Caterina Orsini del Balzo, cugina in primo grado della regina Isabella, moglie di Ferrante, ed era marito di Isabella Todeschini Piccolomini d’Aragona, nipote di Ferrante per parte della figlia naturale Maria d’Aragona.
(dalla Prefazione di Caterina Lavarra)